La Chiesa della Scuola Militare Nunziatella di Napoli ha raccolto nei secoli voci, segni, fotografie di giovani e giovanissimi che tra le sue mura hanno lasciato echi vivi per chi si metta in ascolto.
A MIA MADRE è un viaggio nella memoria che racconta, attraverso rarissime immagini d’epoca, diari, e fotografie contemporanee, le storie di giovani soldati che sono passati lì prima di morire su fronti lontani.
Le immagini di Yvonne De Rosa sono correlativi oggettivi e le fotografie vernacolari sono virgole e punti di paragrafi che scrivono un altro racconto. Gli oggetti del soldato, come nel brano Soldier’s Things di Tom Waits, sono pezzi vagabondi di un “uno” andato in frantumi nelle trincee di mille guerre che ancora strappano i figli alle madri. Pezzi di storie conservate senz’ordine alcuno in una scatola di marmo: Boîte-en-valisedi duchampiana memoria.
A MIA MADRE è un archivio in cui Yvonne De Rosa, mentre riafferma il valore di verità e memoria, insinua la finzione narrativa. Archivio come luogo fisico ma anche oggetto teorico che mina l’originalità del manufatto, del reperto.
L’archivio è l’esito di una campionatura e di un rimessaggio, un mosaico che non detta una storia ma con-fonde testo e materia.
Un archivio che produce impressioni, percezioni non traiettorie e percorsi. Quello di A MIA MADRE non custodisce più una storia coesa e compatta ma schegge, frammenti ad alto potenziale metonimico, direbbe Frederich Schlegel:«Un frammento dovrebbe essere una piccola opera d’arte, compiuto in se stesso e separato dal resto dell’universo come un riccio».
Se il frammento è l’unità minima, il montaggio è la pratica in cui si risolve la sua artisticità. Yvonne de Rosa costruisce, con il suo lavoro, un atlante dai criteri ordinatori volutamente deboli ma potentissimo in quelli iconografici. Un meta-racconto di ciò che può significare essere un giovane soldato, lasciare gli affetti più cari, combattere la paura, perdere la spensieratezza infantile e diventare, improvvisamente e inevitabilmente, grandi.
«In ogni avversità, davanti alle più dure fatiche, anche quando mi sembrava di impazzire bastava che pronunziassi il tuo dolce nome perché riuscissi ad assuefarmi al duro destino», scrive il giovane soldato.
Una preghiera apotropaica, ossatura scheletrica di dolore, come le antenne giacomettiane conficcate sulle tombe, totem arcaici di un rito che si rinnova.
(dalla Prefazione di Simone Azzoni)
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