Stefano Causa: Dischi da correre | RECENSIONE LIBRO

Dischi da correre, di Stefano Causa (Roberto Nicolucci Editore) riapre il discorso sulle copertine e sulla loro funzione. Ecco la nostra recensione

Dischi da correre non è il solito libro sulla nostalgia vinilica e sulle «copertine di una volta» immancabilmente migliori di quelle di oggi. Innanzitutto perché l’autore, Stefano Causa, è un apprezzatissimo storico dell’arte moderna e contemporanea (oltre che appassionato di musica «a tempo guadagnato», come dice di se stesso), discendente diretto di quella linea genealogica che passando attraverso Mina Gregori e Ferdinando Bologna lo collega al grandissimo Roberto Longhi. Nel libro edito da Roberto Nicolucci passa dai dipinti dei caravaggeschi alle copertine dell’epoca d’oro del rock (1965-1985), conservando lo stesso acume e la medesima eleganza di scrittura.

Ed è proprio Nicolucci a esporre la premessa, non solo del libro ma dello stesso legame personale che lo lega all’autore. Un piccolo ritratto giovanile di entrambi nelle stesse aule universitarie, dove ogni lezione finisce in musica, «salvavita e segno di riconoscimento». Musica rigorosamente su vinile, Dischi da correre, così come i rischi. Per un’amicizia così, ne vale la pena. «Smontati e rimontati», prosegue l’editore, «i dischi sono fissatori di ricordi, segnano snodi e passaggi di tempo».

Passaggi di tempo «paurosamente densi» come quelli che scandiscono gli inoltrati anni ‘60, che Causa paragona alla Roma di Giulio II tra 1508 e 1512, o alla Parigi di quegli altri meravigliosi anni Sessanta capitati al XIX secolo. E i Beatles, così come Raffaello per l’arte pittorica, mettono a punto un linguaggio universale a partire da Rubber Soul, la cui analisi apre il corpus discografico e iconografico di Dischi da correre.

Da quella copertina, che non ha più bisogno di citare il nome della band (i quattro sono ormai riconoscibili «quanto San Girolamo o Napoleone»), a quella di Aftermath dei falsi nemici Rolling Stones. Chiedere di scegliere, per l’autore, è come «chiedere di mettere una x su Masaccio o Gentile da Fabriano, Caravaggio o Annibale Carracci». Altrettanto arduo chiedersi se in copertina Jagger e compagni stiano evaporando dopo essere apparsi o, al contrario, si stiano finalmente materializzando.

Altri Dischi da correre e da guardare sono quelli dei primi Pink Floyd ritratti da Vic Singh, i Doors di Guy Webster, il White Album e In the Court of the Crimson King, la cui copertina è per Stefano Causa la migliore di sempre, «la prima che venga in mente a colpo». La locandina di uno studio odontoiatrico, scrive prima di ricordarne l’artefice Barry Godber, pittore scomparso giovanissimo, il cui urlo viene raffrontato a quello di Munch, concludendo che il confronto non regge per una questione di taglio.

E via correndo e disc-correndo, tra Who, Led Zeppelin, Jethro Tull, le «volpi di testa» di Foxtrot e il Bowie Pierrot Lunaire di Heroes. Per chiudere con la «Popertina» di The Cars (Heartbeat City, 1984) e quella dei Tears for Fears ritratti da Tim O’Sullivan l’anno dopo, «sfrontatamente e orgogliosamente privi di appeal»: la versione internazionale dei «guaglioni d’o bar» partenopei.

Dischi da correre e da riscorrere, guardare e riguardare. Per Stefano Causa la copertina non è mai una soglia da superare distrattamente, ma è anzi — assieme al titolo — metà dell’opera. E il suo libro si rivolge sì ai nostalgici del vinile e del cd, ma ancor più alla nuova generazione di ascoltatori che «scaricano oggi tutta la musica del mondo, ma distrattamente. E, senza vederla!».

Ben sapendo, in fondo, che per le immagini così come per la musica stessa, la metamorfosi del supporto non basta a decretarne la scomparsa. Ma il nuovo paradigma del paratesto discografico è un discorso ancor più ampio, una questione cui questo libro non pretende di indirizzarsi. Sarebbe forse un rischio da correre anche questo, ma ci priverebbe di una lettura piacevolissima e solo all’apparenza «semplice».

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