Minà e il fascino della fotografia sbagliata al tempo dell’intelligenza artificiale

di NICOLAS LOZITO

Immaginario Minà. «Gianni Minà è un personaggio che appartiene alla nostra memoria collettiva», dice Walter Guadagnini, direttore di Camera, centro italiano per la fotografia e docente all’Accademia di Belle Arti di Bologna. «Con le sue frasi, i reportage, ma anche con la sua immagine: il suo volto è un’icona». E le sue fotografie, scattate con chiunque e in ogni angolo del pianeta.

Perché gli scatti di Minà ci piacciono così tanto?
«Il fascino della nostalgia, soprattutto. Chi a quei tempi c’era vede quelle foto e ricorda quando era giovane, quando il mondo era quella roba lì. Un giovane invece può immaginarsi com’era la vita un tempo, mitizzarla. Ma non è solo una questione di memoria, perché bisogna ricordarsi che ai tempi c’erano molte meno fotografie, e di conseguenza il valore unitario era più elevato».

Minà con Maradona, con Castro, con i grandi del cinema. Grandi personaggi del Novecento mostrati come fossero amici della gita. È questa la forza delle foto?
«Ai tempi c’erano i ritratti ufficiali e i paparazzi. Di politici e vip non avevamo altre prospettive. Il fascino stava anche nella segretezza svelata. Una stanza da letto, il ristorante chiuso, la prima classe di un aeroplano. Oggi, per contro, sappiamo tutto dei personaggi famosi, siamo inondati della loro stessa rappresentazione sui social network».

Possiamo dirlo però: erano foto brutte. Luci sbagliate, inquadrature banali. Come le giudica tecnicamente?
«La fotografia “sbagliata”, per come la intendiamo universalmente, in realtà ha un suo fascino. Un sorriso può diventare una smorfia originale, una camicia bianca che riflette il flash può dare un significato diverso a un ritratto. All’epoca gli errori erano più diffusi, ma non parlerei di foto “brutte”. Piuttosto sono scatti originali e impossibili da replicare. Proprio qui sta la loro forza».

Oggi, per contro, le foto sono tecnicamente perfette, ma sono troppe. Il fotografo-filosofo Joan Fontcuberta parla di “furia delle immagini”. Abbiamo perso il controllo del mezzo?
«La fotografia è un linguaggio giovane e dalla velocità evolutiva estrema. Dal 1839, quando è stata inventata, c’è chi si preoccupa delle innovazioni tecniche. Ma è un falso presupposto. La fotografia ha assunto ruoli diversi: non è solo un mezzo per testimoniare, ma anche uno strumento sociale. Non più solo una raccolta puntuale, ma anche un flusso».

Nel 2017 a Camera avete esposto “24 hour photos” di Eric Kessels: le stanze del museo erano piene di fotografie scaricate da internet. Intende questo per “flusso”?
«Il singolo scatto ha preso la sua preziosità. Ma allo stesso tempo il valore della fotografia non è mai stato così alto. È il mezzo principale con cui comunichiamo. Foto ricordo, appunti visuali, selfie».

Minà si sarebbe fatto dei selfie, avesse avuto uno smartphone?
«Io credo proprio di sì. Sarebbero stati selfie incredibili, con il suo faccione e quel sorriso che tutti ricordiamo».

È sicuro? Le scene non perderebbero un po’ di magia?
«Le foto di Minà sono “foto di circostanza”. Foto spontanee, che hanno una loro retorica intrinseca che prescinde da come lo scatto viene effettuato. Le persone ritratte si mettono in posa, sorridono, si abbracciano, si stringono la mano per consegnare quel momento alla storia».

Tutti scattiamo selfie, ma molti criticano quelli degli altri. Perché?
«Sono sovrastrutture, ma è cambiata solo modalità e frequenza. Quello che non ci piace veramente è la finta spontaneità. Uno scatto costruito ad arte trasmette emozioni fittizie».

Abbiamo chiesto all’intelligenza artificiale di disegnare Minà come un fumetto giapponese. L’AI nella fotografia e nell’arte ci deve spaventare?
«Assolutamente no. Sembra che scopriamo la tecnologia appena oggi, ma le foto vengono ritoccate dagli albori. L’uso di nuovi software e algoritmi è una semplificazione, come lo è stata Photoshop trent’anni fa».

Organizzerebbe una mostra di immagini generate solo dall’AI?
«No, se intendiamo le foto del Papa con il piumino. Sì se un artista la usa per interrogarsi e interrogarci. Gianni Minà, secondo me, verrebbe a vederla».

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