Mamma, guarda, la guerra è un’illusione

“Sparano”. La parola è incisa a tutte maiuscole sul marmo levigato di una chiesa, ma non è un’epigrafe ufficiale. È un graffito abusivo. Seminascosto sulla modanatura ricurva di una decorazione rococò.

Non è il vandalismo di un turista, però. È un grido della storia.

Sparano. Dove cadrà l’accento? Capirete fra poco che si tratta di una firma, e quindi probabilmente fu uno Sparàno che incise con un chiodo o qualcosa del genere il suo cognome sulla pietra solenne.

Ma chi sfoglia questo libro splendido e doloroso, rispettoso e composito, di Yvonne De Rosa, non può resistere alla tentazione di leggere spàrano, voce del verbo sparare. Siamo, dopo tutto, nella cappella di una scuola militare.

A pochi palmi dal graffito ce n’è un secondo, una data anch’essa incisa: 1919. Se è della stessa mano, allora saremmo costretti a correggere mentalmente: sparàvano. La Grande Guerra, che tutto fu fuorché grande nel senso di nobile, era già finita, in quell’anno.

E dunque l’ufficiale Sparàno era un sopravvissuto, un reduce incolume, e il suo graffito una sorta di ex voto spontaneo, ancorché irregolare, per aver avuto salva la vita.

Sì, è ora di farvi capire qualcosa di più, d’accordo. Yvonne De Rosa è una fotografa napoletana, animatrice nel cuore partenopeo di una associazione molto attiva e molto femminile, Magazzini Fotografici.

Questo suo libro che sfugge ai generi, un po’ lavoro d’archivio, un po’ indagine documentaria, un po’ fotografia d’autore, è dedicato alla Scuola Militare della Nunziatella, istituzione settecentesca passata indenne sotto vari regimi, una delle più antiche scuole militari del mondo ancora in attività.

Quando Yvonne mi ha anticipato questo suo lavoro, ammetto, ho dubitato. Libri di questo genere, che esigono una commissione o quantomeno una autorizzazione dell’istituzione a cui si riferiscono, finiscono spesso per essere e/o raccolte di immagini storiche di militari in posa, gallerie di ritratti con pettoruti medaglieri, e vedute belle composte e nitide delle bellezze architettoniche della sede storica, il tutto a scopo più encomiastico che documentario.

Ma quando, nella pausa di un festival, seduti tranquilli al tavolino di un caffè, Yvonne mi ha lasciato sfogliare la maquette, al primo sguardo ho capito di aver dubitato ingiustamente, e dopo un po’ anzi ho ceduto all’entusiasmo.

Il libro si chiama A mia madre, e devo dire che il titolo è l’unica cosa che mi lascia un po’ perplesso: ai guardatori di copertine, e sono tanti, potrebbe dare un’idea sbagliata di quel che c’è dentro.

Non si tratta ovviamente della madre di Yvonne, ma di quella di un ufficiale, il sottotenente Gabriele, che scrisse quella dedica a mo’ di titolo per un suo dattiloscritto, ritrovato in archivio e integralmente trascritto nel libro: un pacchetto di fogli di velina tenuti assieme da una graffetta arrugginita.

È un memoriale di guerra (della seconda guerra mondiale, in questo caso, durante la quale lo scrivente fu fatto prigioniero da due paracadutisti americani a Menfi, in Sicilia, subito dopo lo sbarco alleato).

Ed è una memoria infelice. “L’esperienza di questi ultimi due anni, da quando sono partito soldato, è stata per me oggetto di nausea per tutto ciò che è vita esterna; oggi più che mai mi sono convinto che nulla si può sperare da ciò che ci circonda se non inganni e disillusioni”.

È curioso trovare nei cassetti di una istituzione militare una così accorata denuncia dell’insensatezza della guerra, maturata attraverso l’umiliazione della prigionia: “Perdere il diritto della propria volontà per lasciarli in mano altrui è qualcosa di spaventoso, essere privati della propria libertà, di quella libertà che è l’aspirazione di qualsiasi essere umano, è come ammazzare moralmente il proprio essere togliendogli quel sia pur minimo alito di vita”.

Una frase che potrebbe essere detta tale e quale anche della disciplina militare, ma qui ammetto di prestare un po’ troppo i miei pensieri al sottotenente amareggiato. Che pure esclama, verso la fine, poco marzialmente: “Come ti illudetevi, o Gabriele, nella vita speravi di poter attuare ogni tuo più intimo sentimento di conquista e invece vedi ora come ti sei illuso, poiché il destino avverso ha tutto distrutto nel tuo animo”.

Ed è difficile non leggere come un addio alle armi la promessa finale: “Ora che ho compreso quanto è triste la vita ti giuro, mamma, che al mio ritorno non aspirerei ad altro che a lavorare solo per far felice te che hai tanto sofferto per il mio benessere”.

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