“Dischi da correre”, le copertine che hanno fatto storia

Stefano Causa, da storico dell’arte, vorrebbe l’immagine bianca del “White Album” dei Beatles in un museo. Perché quella provocazione, dagli anni Sessanta, è figlia di un’urgenza comunicativa e potenza artistica al pari di tanti capolavori del tempo che li ha prodotti. Con lo scopo di nobilitare l’arte della copertina dei dischi, l’esperto ha scritto “Dischi da correre”, un libro per Roberto Nicolucci Editore che oggi viene presentato alla libreria Iocisto di Napoli con l’autore Donato Zoppo.

A 56 anni – ci racconta – mi sono permesso questo gioco di parole nel titolo, ma ho voluto mettere in evidenza quanta musica associata alle copertine ha forgiato la personalità di generazioni di ascoltatori. La copertina azzeccata assieme al titolo è importante nella musica come nella letteratura. Fa parte a tutti gli effetti di un’opera”.

Storico dell’arte appassionato di storia della musica, Causa ritiene l’esperienza dell’acquisto di musica che si tocca e si guarda ancora oggi molto coinvolgente.

Che tipo di scelte sono state fatte per la realizzazione del libro?

Mi sono concentrato sulla musica pop straniera dei tempi d’oro, dagli anni Sessanta agli Ottanta. All’estero c’è stata un’attenzione maggiore alle immagini, durante il boom commerciale del vinile. Ci si portava inizialmente a casa la faccia del cantante come nel caso di Frank Sinatra. I primi 45 giri di Elvis avevano la sua immagine in primo piano. Anche il primo album dei Doors aveva Jim Morrison, erano tempi in cui si puntava sulla bellezza iconica del leader.

Poi nel mercato della musica commercializzata è cambiato qualcosa…
Il primo album dei Beatles ‘Please Please Me’ e The Who con i componenti della band coperti dalle bandiere hanno mostrato nuove possibilità. Giocare con le facce dei musicisti e foraggiare l’immaginario degli adolescenti ha preso piede, piano piano si è iniziato a giocare con le grafiche e distoriorsioni, come in ‘Rubber Soul’.

Che idea c’è dietro il tuo libro?
Roberto Nicolucci è uno storico e critico d’arte nonché fondatore della casa editrice che mi ha spinto a fare la scelta della storia delle copertine. Un’idea che è arrivata da un trentenne, il che dimostra il suo coraggio e anche il mio stupore. Ovviamente ero contento di avere una persona più giovane a sostenere questa avventura.

Quali sono quelle che hai voluto inserire per forza?

Il libro è bello da leggere e anche da guardare e toccare. L’ho organizzato con schede veloci con una scelta che va dai Beatles, senza parlare di ‘Sgt Pepper’s’ che merita un trattato a parte. Ho evitato anche ‘The Dark Side of the Moon’ dei Pink Floyd, di cui si sa molto. Ho voluto “In the Court of the Crimson King’ perché per la mia generazione ha significato molto, quella faccia che urla è iconica ora come nel 1969. Così come ho voluto Joe Jackson di ‘Night and Day’, una pietra miliare del 1982 e i Tears for Fears di ‘Songs for The Big Chair’ del 1985.

Quella che hai più a cuore?
Sono molto legato al disco di Emerson, Lake & Palmer del 1973 ‘Brain Salad Surgery’ che ha l’artowork di Hans Ruedi Giger, l’artista che successivamente disegnò il protagonista dei film ‘Alien’. Quello era un packaging sperimentale, si apriva e aveva un concetto molto ambizioso.

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